Fabio Mauri

Fabio Mauri

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Fabio Mauri: Non ero nuovo, por Giacinto Di Pietrantonio (fragmento*).
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Fabio Mauri (Roma 1926–2009) è un artista dall’opera complessa e multiforme che comincia e conclude vita e carriera nella città eterna, partecipando all’interessante dibattito culturale nazionale e internazionale che ivi si svolge a partire dal dopoguerra. È qui che, nel 1955, presso la galleria Aureliana, espone i primi disegni di carattere espressionista e informale. È qui che l’amico Pasolini, nel presentarlo, ne evidenzia la “contaminazione del linguaggio” come tratto caratteristico, facendo intuire che è un battitore libero. Difatti, benché Mauri fosse parte della scena artistico-culturale di allora, non aderì e/o fece mai parte dei coevi movimenti, quali la cosiddetta Pop Art romana di Schifano, Festa, Angeli, o l’Arte Povera che, con Kounellis e Pascali, ebbe un forte peso a Roma. Tuttavia, dagli anni Sessanta fu presente in molte delle significative mostre che accompagnarono artisti legati a queste aree espressive, a testimonianza del fatto che – pur essendo un “anarchico” linguisticamente parlando – il suo lavoro apparve necessario. 

(…)
Pasolini, giustamente, riconosceva all’arte dell’amico Mauri – con cui presso l’Università di Bologna aveva dato vita alla rivista di politica e cultura il Setaccio – di essere fatta di contaminazioni, perché avvertiva il suo essere potenzialmente contaminata da linguaggi. Intellettualmente complessa, l’arte di Mauri non è mai pensata come discorso di arte per l’arte, come testo fuori del mondo, ma quale scrittura che fa mondo come si conviene all’opera di un artista che vuole, e sa di essere, anche un intellettuale. Intellettuale è il titolo della performance che, nel 1975, presso la Galleria d’Arte Moderna di Bologna,, Mauri “dedicò” a Pasolini, proiettandone il film Il Vangelo secondo Matteo (Pier Paolo Pasolini, 1964), senza sonoro, sul corpo-schermo di Pasolini stesso con camicia bianca seduto su una sedia al centro della sala. L’arte di Mauri che, come quella di Pasolini, ha una caratura religiosa al di là del dogma, mostra il corpo sacro di Pasolini al buio, illuminato misticamente solo dalla luce della proiezione, una “radiografia dello spirito” del corpo del poeta che, di lì a poco, sarà sacrificato sul litorale di Ostia, ponendo fine alla vita dell’intellettuale “contro”, radicalmente attivo nel condannare il potere di palazzo. Per Mauri, l’artista è un intellettuale in senso benjaminiano, in quanto non è colui che si presenta romanticamente solo e smarrito di fronte alla potenza del mondo, ma colui il quale ha delle responsabilità nei confronti del mondo stesso e partecipa al mondo. La sua è un’arte che deve porre domande e cercare risposte, essere partigiana, come gli piace asserire: “Ebbi occasione di affermare in un dibattito in quegli anni che commettevo (tentavo di fare) arte per ‘legittima difesa’. Comportamento poetico come guardia stretta, nel senso di parteggiare, o contrattaccare”1.  
(…)
L’arte per Fabio Mauri è un linguaggio propositivo: “Enuclea il senso più della scienza e forse più della filosofia. Fa stare in piedi il mondo verosimile, Dio, l’uomo, i sentimenti, i pensieri, il giudizio generale e particolare sull’enigma dell’universo. Perciò mi dico anarchico, perciò mi coltivo come artista”2.  Non è solo mezzo di rappresentazione (espressionismo), né di presentazione (dadaismo), ma strumento con cui parlare del mondo, di quello che è appena stato – mondo moderno – di quello che si sta avviando a essere – mondo postmoderno – e di quello che sarà – mondo futuro – per cui l’artista non sceglie uno stile ma, di volta in volta, i mezzi più appropriati. Mezzi vecchi e nuovi, una via eccentrica ben consapevole di “non essere nuovo”, come esprime in varie opere pitture, disegni, collage fino allo zerbino Non ero nuovo (2009) presentato a dOCUMENTA (13), edizione del 2012, per cui conferma che: “L’eccentricità [...] introduce un’estesa interferenza nella centralità di una storia abituale, abituata al proprio tempo”3. Il fatto che Mauri non potesse essere considerato un artista moderno, e tantomeno postmoderno, che quindi non potesse essere contemplato all’interno di un unico mondo espressivo – nonostante la partecipazione a sei biennali di Venezia e all’ultima Documenta di Kassel – ha fatto sì che si creasse un ritardo nella comprensione del suo lavoro che, fortunatamente, negli ultimi anni sta ricevendo la dovuta attenzione internazionale e di cui, anche questa mostra alla Fondazione Proa, costituisce un tassello. La mostra in questione cerca di tracciare un racconto storico-critico dell’opera di Fabio Mauri, partendo dai primi disegni – di cui abbiamo già fatto dire a Pasolini – andando avanti con opere oggettuali, schermi, grandi istallazioni, performance, opere-documento, etc. 
Giacinto Di Pietrantonio
* Il testo curatoriale completo è parte del catalogo della mostra Fabio Mauri. Disponibile a Proa.

1. Fabio Mauri, Cosa è, se è, l’ideologia nell’arte, in Francesca Alfano Miglietti (a cura di), Scritti in mostra. L’avanguardia come zona 1958-2008, Milano, il Saggiatore, 2008, p.187

2. Fabio Mauri, Formazione del Pensiero Anarchico, in Carolyn Christov-Bakargiev, Marcella Cossu (a cura di), Fabio Mauri.  Opere e Azioni 1954-1994, (Catalogo della mostra, Roma, GNAM, 1994) Milano, Mondadori, 1994, p. 141

3. Fabio Mauri, Eccentricità, in Francesca Alfano Miglietti (a cura di), Scritti in mostra cit., p. 325

Fabio Mauri: Ideología y Memoria, por Laura Cherubini.
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Nella seconda metà degli anni Cinquanta si ascrive la prima fase del lavoro di Fabio Mauri, nella quale tuttavia sono presenti i nuclei fondamentali della successiva evoluzione artistica. Sin dalle prime mostre si manifesta l’attitudine a un linguaggio pittorico espressionista (galleria del Cavallino, Venezia 1954; galleria Apollinaire, Milano 1955). Le prime recensioni parlano di “confusione”, individuando, se pur in negativo, un tratto fondamentale dell’opera di Mauri: quel mettere insieme gli aspetti contraddittori della realtà che è la vera ragione dell’idea che Mauri ha del collage come intrinseca essenza della pittura. L’amico poeta Pier Paolo Pasolini (nella presentazione della mostra alla galleria L’Aureliana, Roma 1955) invece coglie immediatamente nella “contaminazione” un elemento essenziale e fa riferimento all’espressionismo. Per Mauri un’Europa che pensa ancora in tedesco deve fare i conti con il suo profondo e radicato espressionismo. Si scrive e si disegna ancora in modo espressionista e anche il cinema parla ancora un linguaggio espressionista. Ma anche la performance e tutta l’arte di comportamento sarà per Mauri puro espressionismo (tanto che una sua performance, in cui uno sciatore si aggira spiazzato in un museo eseguendo disegni che poi lascia cadere, si intitola L’Espressionista). I temi, orientati in senso religioso, sociale e politico prefigurano motivi futuri. Nel ’56 Mauri vede nella vetrina della galleria romana L’Obelisco un libro con immagini di Alberto Burri e comincia a riflettere sull’utilizzazione di elementi della realtà contemporanea. Così su disegni e collage (comeHellzapopping, un incongruo assemblaggio di collage, action painting e segno) cominciano ad apparire fumetti come Flash Gordon e Popeye, a volte in frammenti che compongono il collage, a volte disegnati dall’artista stesso. Mauri fa disegnare “Braccio di ferro” a fotogrammi a un disegnatore di fumetti. Mauri ricorda di aver provato a disegnare un fumetto per la prima volta nel ’34 dopo aver visto “Flash Gordon” e di essersi poi ritrovato, alla fine degli anni Cinquanta, “felice a ridisegnare fumetti”. Il mondo a cui si riferisce l’artista, scrive Carolyn Christov-Bakargiev, “è già quello delle immagini ‘mediate’ dal fumetto stampato; è già un mondo televisivo e cinematografico, sono già le immagini-segni della nascente cultura di massa della civiltà contemporanea”. Secondo la stessa autrice, Mauri (oltre a precorrere nel ’60 l’uso di oggetti nel collage che Jim Dine comincerà a usare nel ’62) è fortemente anticipatore nell’uso del fumetto: “I primi usi del fumetto nell’arte americana risalgono infatti ai riferimenti di Red Grooms a Dick Tracy e Orphan Annie nei suoi happening del 1959. Sebbene Lichtenstein usasse già il fumetto ridisegnato in maniera espressionista nel 1958, il suo primo fumetto vero e proprio è del 1961, così come i primi Dick Tracy di Andy Warhol, collage di pittura e di pezzi di fumetto stampato, sono anch’essi del 1960, e quindi successivi ad analoghe opere di Mauri”. Il segno nero è usato come linguaggio che costruisce una narrazione e allude già ad un universo mediatico. L’orizzonte è quello dell’iconosfera urbana. Emilio Villa, grande figura di intellettuale nella Roma di quegli anni, pubblica sul secondo numero della rivista “Appia” nel ’60 alcuni disegni/collage del ’59 (altri nello stesso anno appaiono nel volume “Crack” con testo di Cesare Vivaldi). The End del ’59 appare spartito in due zone, la superiore dove il segno si fa cancellatura e l’inferiore dove appare la scritta “THE END” (analoga scritta appariva già in un disegno del ’57). Questo disegno appare come un preciso momento di passaggio verso il ciclo coevo degli Schermi.

SCHERMI 
“Fin dall’inizio il mondo mi è sembrato una grande, e solo parzialmente decifrata, proiezione. L’oggetto-simbolo di questo stato delle cose, di questo nostro essere di fronte alla realtà, è loschermo... Noi non vediamo tutta la realtà possibile... vediamo delle porzioni di mondo, quelle che la nostra cultura ci consente di distinguere e di vedere... Lo schermo è ciò su cui l’uomo rappresenta figure e corpi, ma anche sentimenti e pensieri invisibili... Noi vediamo per schermi, attraverso una tecnologia che è quella del cinema, della fotografia eccetera... Il primo schermo è disegnato, un foglio da disegno bianco con una cornice nera intorno diventa qualcosa di diverso da sé, diventa luce e buio, uno spazio che perde il segno di disegno; uno schermo in carta più piccolo aggettante (1958) somiglia a un televisore; un’altro schermo aggettante è un 
 monocromo nero... lo schermo era qualcosa di iniziale, una superficie pronta ad accogliere immagini, significati...”. E’ dunque alla fine del ’57 che Mauri realizza il disegno su carta che costituisce il primo schermo. Attraverso il semplice gesto di dotare il foglio bianco di una cornice a tempera e di attribuirgli il titolo di Schermo Mauri sembra riconoscere nel quadro la prima forma di schermo. Gli ultimi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta sono caratterizzati nell’arte europea dal monocromo, nato dalla volontà di superare l’informale e dalla tensione verso un grado zero della pittura. “Il monocromo, cioè dipingere di un colore unico una superficie (di una tela o di un oggetto), è una tassativa ‘riduzione’ dello spazio convenzionale espressivo, e del mondo dell’immaginazione, all’arte di pittura” scrive Mauri “Lo ‘schermo’ non è un monocromo: sono due. Così simile al monocromo, anzi identico, lo schermo è la seconda forma o categoria in campo, praticata, consapevolmente o meno, con più frequenza. Non è un monocromo. In senso stretto non ricopre di sé il mondo. Né è una materia a cui lo riduce. Il suo intento, minimo o smisurato, è di contenerlo ‘velandolo’…”. Lo schermo è a tutti gli effetti la nuova vera forma simbolica del mondo e Mauri coglie questo fatto tempestivamente, immediatamente. 
“Dopo il primo Disegno, Mauri sviluppa nel 1958-59 una serie di piccoli Schermi con parti aggettanti, tutti della stessa dimensione (circa cm. 62 x 45 x 5). Qui l’artista si rivolge anche al televisore, cioè all’oggetto fisico che contiene e rivela il flusso di immagini-surrogato della realtà… I primi di questi lavori sono realizzati con fogli di carta extra-strong formato A1 tirati sopra un telaio aggettante. Poiché la carta bagnata e tirata sul telaio si rompe con facilità, l’artista sperimenta anche l’uso del cartoncino per poi utilizzare tela di cotone. La tela è a volte grezza, ed in questo caso mantiene una trasparenza simile alla carta. Altre volte dipinta con la tempera bianca. Nella parte superiore dell’opera si percepisce una forma rettangolare dagli angoli smussati che fuoriesce dal livello bidimensionale del telaio, e che ricorda il bordo di uno schermo. La carta o la tela nella parte inferiore del quadro è generalmente liscia e tirata, ma vi sono anche alcuni ‘Schermi’, chiamati Tasca da cinema, dove si evidenzia una piega nella parte inferiore” (Carolyn Christov-Bakargiev). E’ interessante notare come, sullo scorcio degli anni Cinquanta, l’artista lavori contemporaneamente sul monocromo più rigoroso, quasi una struttura del vuoto, e sull’assemblaggio di oggetti (Cassetto 1959-60). Si evidenzierà sempre più la possibilità dello schermo di ospitare elementi di qualunque sorta come si può notare negli esemplari più grandi, in genere suddivisi in una parte superiore velata e una inferiore riempita da oggetti. A partire dal ‘64 lo schermo, proprio come luogo virtuale delle possibilità, ospiterà sempre più frequentemente elementi figurativi (Sinatra, 1964). Ma lo schermo apparirà ancora, in molte occasioni, a volte con la scritta The end: “Perché nella mia mente lo schermo era come diventato un testimone della storia, una sorta di specchio opaco, ma capace di ritenere le proiezioni del mondo e contenerle...”. Quando nel ’60 era stato pubblicato sulla rivista 
“Appia Antica” uno schermo cancellato con la scritta “The end” Emilio Villa aveva scritto:“Il pittore narra di un suo film di materia così labile da non resistere al tocco della vita, e da cancellare repentinamente: e di qui, un maltrattenuto gesto iroso, la croce, come dire: the end”. Commenta Carolyn Christov-Bakargiev: “lo schermo è infatti un vuoto contenitore di ogni possibile film, ed è lo schermo dove la proiezione è già avvenuta” sottolineando che il senso del “già accaduto” è segnalato dalla scritta “The End” o “Fine” fino a divenire una sorta di marchio dell’artista. Appare evidente che se da una parte Mauri partecipa a pieno titolo della generale tendenza al monocromo, dall’altra scavalca quel momento per aprire, da vero pioniere come sempre sarà nel suo multiforme lavoro, alla dimensione futura dell’universo mediatico. Di lì a poco, infatti, e sempre più, con il cinema, la televisione, il computer tutta la nostra vita passerà attraverso il format dello schermo.

EBREA
Parallelamente a Che cosa è il fascismo Mauri prepara una performance completamente diversa.Ebrea è ambientata all’interno di una inquietante installazione e viene presentata per la prima volta nel ’71 a Venezia alla galleria Barozzi (poi ripetuta in varie occasioni, anche se non sempre sono presenti tutti gli elementi). Una figura femminile abita un piccolo spazio organizzato come il museo di un campo di concentramento fatto di oggetti-sculture che “simulano una provenienza umana” (Maria D’Alesio). Qui la performance si combina con l’installazione che Maurizio Calvesi definisce “un inventario di silenzi o di tragici ultrasuoni”. Uno degli aspetti più interessanti dell’opera è che costituisce anche un’agghiacciante pratica di corrosiva analisi critica del design: “Intralcio di sfuggita la sicurezza laica del ‘design’ contemporaneo così fiducioso nel progresso” (Mauri nel testo che accompagna la mostra). Al centro dello spazio si accampa un Cavallo di S.S.bardato con Finimenti in pelle ebrea circondato da altri oggetti: Carrozzina ebrea eseguita con la famiglia Modigliani 1940Veri pattini di Anna Cittterich di Varsavia, eseguiti con lei stessaPelli da sci eseguite con Oswald e Mirta Rohn catturati a Davos-Brzezinka - Ospedale Maggiore;Pennelli di capelli, colori organici e pergamena ebrea – Oswirgin. Birkenau 1940SaponiVera cera ebreaSedia in pelle ebrea - Norimberga 1941Samuel Morpurgo, primo ospite nel campo di Treblinka, nella sua stessa cornice, eseguito da Attila Rengstorf – Treblinka 1943Ippolito MarchRacchetta neraPriscilla-guantoValigia ebreaGioiello-LaibackFamiglia ebrea. Di fronte a un Armadietto con specchio, forbici e una macchina per tagliare i capelliHaarschneidemaschine, sta la ragazza, nuda, che si taglia ciocche di capelli e con esse compone sullo specchio il segno della stella di Davide, marchiata anche sul suo petto insieme al numero che nei lager nazisti sostituiva il nome e con esso ogni identità. La stella di Davide appare anche amplificata per tre volte sulle pareti intorno a una frase in ebraico di Geremia: “Un grido si è udito in Roma, di grande pianto e lamento. E’ Rachele che piange i suoi figli, e non vuole essere consolata, perché essi non ci sono più”. E’ la banalità del male messa in scena attraverso un macabro campionario di oggetti. Tra questi la valigia allude a un’identità più instabile, in pericolo, messa a rischio. Il muro di valigie presentato alla Biennale di Venezia nel ’93 (nell’ambito di una riproposta di Ebrea) riprende il tema delle drammatiche divisioni del mondo del Muro d’Europa. L’installazione è chiaramente legata alla tragica storia ebraica come indicano non solo il titolo,Muro Occidentale o del Pianto, e l’indizio dell’immagine di Ebrea (foto di Elisabetta Catalano) dentro l’unico baule aperto, ma anche la biografia dell’artista, il dramma degli amici partiti e mai più tornati. Tuttavia l’opera diventa emblema universale di ogni migrazione, di ogni esilio, di ogni “dolore del mondo”. 
Se Ebrea, con la figura femminile sola tra oggetti muti, è una melanconica performance dellasolitudineChe cosa è il fascismo Gran Serata Futurista 1909-1930 sono performance dellamoltitudine dove l’accento è sull’aspetto pubblico e meno intimo, dove il timbro è la vitalità (reale nella seconda, apparente nella prima), dove non solo molti performer affollano la scena, ma molti collaborano. Una solitaria figura femminile è protagonista anche di Natura e cultura (Galleria 2000, Bologna 1973 poi ripresentata più volte con il titolo di Ideologia e natura).

ZERBINI

Gli zerbini sono in fondo l’ultima possibile metamorfosi dello schermo. E’ come se, negli ultimi anni, Fabio Mauri tornasse a un’idea di schermo modificata. Dal The End iniziale riprende più tardi il lavoro sulle parole e lo intensifica. Elemento di passaggio appare un’opera del ‘94 con la scritta Questo quadro è ariano che ripete la struttura del primo schermo con la cornice evidenziata. “Lo spazio all’interno della cornice è uno spazio convenzionale che permette la convivenza tra te e il Ratto delle Sabine”. Lo zerbino ariano (Studio Bocchi, Roma 1995) costituisce una sorta di controcanto al macabro campionario di oggetti di Ebrea. In questa mostra infatti l’artista individua e verifica una possibile forma di design in caso di una ipotetica vittoria del nazismo. Qui la scritta è pirografata e reca traccia di bruciature. Per una mostra all’Isola degli Armeni a Venezia (2001) realizza lo zerbino L’ospite armeno e anziché scriverci sopra lo buca: la frase che rende significante il tappeto non è più una scritta sovrapposta, ma forma e contenuto sono inseparabili. Quando nel 2008 espone a Torino Lo zerbino insolubile Mauri ha ormai individuato il tema e lo pone. E’ la mancanza di soluzione che lo zerbino porta in sé. Questo è il primo zerbino che non è un ready-made, la frase nasce con l’oggetto stesso. Lo zerbino insolubile è il primo che nasce con la frase connaturata, tuttavia mantiene in un certo senso un aspetto descrittivo, perché la frase è il titolo stesso. Più avanti questa analogia sarà superata. Nel novembre 2008 per la mostra L’insolubile nella galleria Martano di Torino Mauri progetta per la prima sala una scritta a terra, come un tappeto di parole, mentre alle pareti dovrebbe apparire Manipolazioni di Cultura, l’opera che svela quel che lo schermo vela, la nascita e la formazione di processi culturali e ideologie. La scritta prevista è: “Fabio Mauri è di là”: è sempre vicino, ma non è mai esattamente qui. L’opera all’ultimo momento non viene realizzata. In mostra c’è invece Lo zerbino insolubile. L’insolubile che dà titolo anche alla mostra significa mancanza di soluzione, ma allude anche a un nocciolo duro, qualcosa che non può essere sciolto, che permane identico a se stesso. “Il tappeto separa come se fosse un muro”. Il tappeto dunque è anche l’equivalente del Muro d’Europa che taglia in due la barca (Fondazione De Appel, Amsterdam 1979), è il muro che ha tagliato in due l’Europa, è la scissione sottile e profonda che segna la cultura europea tra umanesimo e disumanesimo, è il muro interiore invisibile che divide lo stesso io. Sempre nella mostra L’insolubile si trova a terra anche un’immagine tratta da una scenografia di Erwin Piscator, il teorico del teatro politico, un’immagine che, come dice l’artista stesso lo ha “folgorato fin da piccolo”. Il piano di calpestio sostituisce la vista. Gli zerbini vanno calpestati, esperiti con il passo, come la superficie lunare fatta di polistirolo. Ricordiamo che in Che cosa è il fascismo l’azione si svolgeva proprio su un tappeto, un piano di calpestio che, una volta rialzato, poteva trasformarsi nel tavolo che fa da palcoscenico a Che cosa è la filosofia. L’idea del lavoro a terra torna nel 2007, alla mostra Not Afraid of the Dark all’Hangar Bicocca di Milano. Qui non assistiamo a una proiezione, ma la abitiamo. Inverosimile (questo è il titolo dell’opera) è l’esito di quel percorso che, iniziato all’esterno dello schermo, ci ha portato nella Luna a oltrepassarne la soglia e poi al suo interno con le Proiezioni. Si è circondati da immagini e coinvolti nella compenetrazione di luce, gesto, struttura, proiezione e riflesso. Se il senso di Inverosimile è quello di stare dentro all’immagine, quello degli Zerbini è di stare dentro al pensiero. Anche nella mostra all’Auditorium (L’universo d’uso, Roma 2008) sono collocate sul pavimento scritte su cui gli spettatori camminano. Camminando su uno degli zerbini non puoi sottrarti all’essere dentro il suo significato. “Lo stuoino-opera lo zerbino insolubile (2008) è esattamente un rebus (oltre che uno stuoino), che nel mimetizzarsi con apparente innocuità da cosa d’uso (siamo abituati agli stuoini con frasi più o meno spiritose) nasconde un enigma di difficile soluzione, anzi impossibile – appunto insolubile- perché non dà appigli visivi ad indovinarne la soluzione. Lo zerbino-rebus è insolubile perché la soluzione resta nascosta, o perché non c’è?” (Vittorio Urbani). Gli zerbini presentano una selezione di frasi, brevi aforismi, sintesi dei pensieri dell’artista, riflessioni comeL’universo, come l’infinito, lo vediamo a pezzi (Amore e Psiche, Spoleto 2009). “I tappeti con le lettere scavate fino a raggiungere la parte opposta, o i muri con grafie tatuate sulla superficie d’intonaco, si fanno linguaggio e veicoli di comunicazione” (Martina Cavallarin). Alla mostra Fabio Mauri, etc., progettata dall’artista, ma inaugurata postuma alla galleria Michela Rizzo (Venezia 2009), oltre al precedente Lo zerbino insolubile, vengono esposti altri tappeti: Forse l’arte non è autonomaNon ero nuovoL’arte fa perché è storia e mondoNessun segno particolare di cultura è fuori da un testo generale storico, e nessun testo generale storico o interpretazione di mondo è fuori dall’enigma più generale dell’universo. In quest’ultima frase è espressa l’operazione ideologica di Mauri.

Source:
Fabio Mauri: Ideología y Memoria (2012). Editorial Bollati Boringhieri, Torino, Italia.

Fabio Mauri, Etc, 2009 Incisión sobre muro, 98 x 68 x 9 cm

Fabio Mauri, Che cosa è il fascismo, 1971

Fabio Mauri, Gran Serata Futurista 1909

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Fabio Mauri, por Dora Aceto
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CINEMA A LUCE SOLIDA, 1968, è un proiettore realizzato in plastica e neon. Una invenzione congeniale a le “Lampadine con i raggi solidificati” dei futuristi Depero e Balla.
L’artista materializza il concetto di proiezione, dando un corpo solido alla luce.
Questa convinzione parte dall’idea che tutte le componenti dell’esistenza siano reali, compreso il pensiero. La fisicità della proiezione è qualcosa che introduce plasticamente il successive svolgimento dell’opera nella riflessione cinematica su lo Schermo e le Proiezioni. È la metafora di un sistema reale del rapporto tra mente e mondo, tra memoria delle cose e loro riconoscibilità ed evoluzione.

WARUM EIN GEDANKE EINEN RAUM VERPESTET? PERCHÉ UN PENSIERO INTOSSICA UNA STANZA? 1972
In un tedescosenz’altro difettoso( nonsono rispettate le maiuscole dellagrammaticatedesca) una seriedi pensieri o diimmaginipersonali divengono titoli dischermidi uguale misura.
E’ilmondo dellamente, i suoi frammentidi memoria, di frasi udite. Navigano come presenze reali, ein qualchemodo lo sono, nel planetario delcervello, dell’artistain questo caso. Suscitano una seriedi presenzeda approfondire, appenasfiorate.
Lavitameriterebbeungrandeunitario studio, sei teminon fossero molteplici enon comparissero e si nascondesserocome un esercito sparso,decisivo, eindecisoserestareofuggire, se accerchiareo essere smarrito nellamischia.
Perché i titolisono in tedesco?Perché, anchesenon correttamente scritte,sono frasi pensate o ricorrenti, sia perchél’autore considerala culturatedescafondamentale perla storia europea:grandi filosofi, storici,fisici, grandi autori dipensiero edi letteraturasi sono succedutiadistanza ravvicinata. E’ l’indicediuna culturatedescacheMauri ha amato,nello sbigottimento finaledella storia politicadellaGermania, dellanecessaria fugadellesue menticulminata in unaguerradi dominio mondiale edi sterminio, altrettanto smisurato.
L’Europahapensato tedescoper molto tempo.Marx, Engel,Freud,Young… senzasfiorareil passato Mozart, Bach, Beethoven, Goethe…geniinnumerevolipresentinella cultura contemporanea.
Tali momenti dimemoria, quasinegativi non stampati maintatti, circolano nellamentedell’arte, non formano un tema unico, ma unamiriadedispunti, di eventualità extratemporali.
Laloro presenza creainviti a proseguirela ricercadel significato intero dellaloro frequenza. Possonointossicareilluogoin cui viviamo, influenzandolo.Il passato circola nel presentein modo aperto o sotterraneo, pronto a carpireunafelicesperanzao un’angosciachiusa ad ogni ulteriore significato, oa farelucein un contesto che ci interessa: l’esistenza, ilsuo senso.

IDEOLOGÍA Y NATURALEZA, 1973, èunaperformancerealizzata allaGalleria Duemila di Bologna. Unagiovaneragazzain divisa fascistadi “PiccolaItaliana”, si spogliaesi riveste molte volte. Inizialmente, in piedi davantiad un cubo bianco,compiequest’operazionedi svestirsi – rivestirsi, in modo naturale; eproseguendo secondo un ritmo scandito daun metronomo, continuaa farlo non seguendo più un ordinelogico.
Levariazioninel modo di vestirsi con glistessi indumentimodificano ilvaloreideologicodella divisa, spingendo lo spettatore allariflessione sulperchési rivesta in modo così anomalo.A secondadelleinvenzionidellaperformeredellacasualitàdegli accostamenti, l’immaginecambia e somiglia al Ku KluxKlan, ad Arlecchino, a un personaggio da circo equestre.
Questo percorso verso lanuditàsimbolica evidenzia come l’unico dato di realtàsia l’ideadi natura, idea cheprevalesu ogni abito imposto dalla culturaedall’immaginazioneideologica del momento.

IL MURO OCCIDENTALE O DEL PIANTO, presentato nel1993 allaXLVBiennaledi Vanezia,èun muro di quattro metri, composto da una catastadivaligiedi cuoio,di legno, di variedimensioni,emblema delladivisione del mondo, dell’esilio, della fuga,dell’esodo forzato.Levaligie delMuro Occidentale o del Piantosono il bagaglio d’individui, ancheimmigratio emigranti, non necessariamentevittimedell’Olocausto. Nellaparteanteriore, le valigiecompongono unastrutturaarchitettonica armonicae regolare, il retro, invece, èmosso, molto plastico, le valigie creano unaseriedi dislivelli, come accadenella naturaumana. Neglianfratti delMuro Occidentale o del Pianto, gliIsraelitiinfilanorotolidi carta con le preghiere riguardantigliaffetti, l’anima,i corpi e ilcome viverela vita terrena. Perchépergliebrei il Muro è illuogo doveDio ascoltasempre. Nel Muro, Mauri hasimulato queste domandeinun unico rotolo di telabianca. E’ unasorta di preghieradell’arte.È piantato, in un barattolo, un ramettodi ederarampicante, persignificareche nessun eccidio può far morirel’Arte, ossia l’Uomo, profondo,giusto, checredenell’Uomo.

Source:
www.fabiomauri.com © 2012 Studio Fabio Mauri, Associazione per lArte LEsperimento del Mondo

Fabio Mauri, Cinema a luce solida, 1968

Fabio Mauri, Ideologia e Natura, 1973 (Ideología y Naturaleza)

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