Room 3
Giovanni Busidetto Cariani
I musici, ca. 1520-1522 (Los músicos)
Óleo sobre tela.106 x 85 cm.
C.A.C
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Formatosi a Venezia all’inizio del Cinquecento sotto l’influsso di Giorgione e Sebastiano del Piombo, Cariani fu operoso in laguna e nel territorio della Serenissima, in particolare a Crema e Bergamo. I musici si collocano all’epoca del soggiorno bergamasco, in particolare all’inizio degli anni Venti.
Il soggetto del dipinto ha stimolato la curiosità degli studiosi, che si sono interrogati sul significato della scena. La diversa caratterizzazione e gli atteggiamenti antitetici dei due protagonisti, rimandano a due differenti concezioni della musica e dell’amore: il giovane uomo, che ha i tratti somatici di un pastore, ha smesso di suonare e si è lasciato vincere dal sonno, mentre la fanciulla, che volge le spalle al compagno e che si presenta in costumi civili, ha sublimato nella musica la passione amorosa. Questa interpretazione collega saldamente il dipinto a quella concezione della musica come metafora dell’amore, che è tipica della cultura veneta di primo Cinquecento. (Paolo Plebani)
Anónimo, copia de Miguel Ángel Buonarroti
Leda e ilcigno, ca. 1550 (Leda y el cisne)
Óleo sobre madera. 57 x 79 cm.
C.A.C.
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Nel periodo della Repubblica fiorentina (1527 -1530) Michelangelo in qualità di soprintendente alle fortificazioni si reca a Ferrara per incontrare il duca Alfonso d’Este, esperto di sistemi difensivi. È il 1529 quando Alfonso commissiona a Michelangelo un dipinto che l’artista provvede a realizzare l’anno successivo. Si tratta dell’amore di Leda, regina di Sparta, con Giove, che si cela sotto le sembianze di un cigno. Dall’unione nascono i gemelli Castore e Polluce che fuoriescono dalle uova schiuse. L’opera in realtà non giunse nelle mani di Alfonso d’Este. La calda sensualità del prototipo michelangiolesco è individuata quale ragione prima della sua fortuna tra gli artisti ed è insieme causa della dispersione dell’opera: giunta nelle collezioni reali francesi venne bruciata tra il 1642 e il 1643 con un atto di censura. Si conoscono del dipinto diverse testimonianze scritte (A. Condivi, G. Vasari) e numerose copie seppur di diversi formati (Londra, The National Gallery; Venezia, Museo Correr; Firenze, Casa Buonarroti; Bergamo, Accademia Carrara). Due incisioni riproducono il dipinto, rispettivamente di Cornelis Bos (1530-1550; Londra The British Museum) in controparte e di Ètienne Delaune (bulino, 1545 circa, Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi). M.C.R.
Francesco di Girolamo da Santacroce
San Giovanni Elemosiniere nella piazza di Alessandria, 1565-1570 (San Juan el Limosnero en la plaza en Alejandría)
Óleo sobre tela. 54 x 48 cm.
C.A.C.
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Una tradizione risalente sino a Luigi Lanzi riferisce il dipinto a Francesco da Santacroce, esponente di una famiglia di artisti originari dell’omonima località bergamasca, trasferitisi a Venezia alla fine del Quattrocento e attivi come pittori in laguna per quasi un secolo e mezzo. Alcuni studiosi hanno individuato nella tela un’opera di collaborazione tra Francesco e il padre Girolamo, ma i confronti stringenti con la Madonna della Misericordia e santi di Chirignago (Mestre), eseguita da Francesco nel 1571, quindici anni dopo la scomparsa di Girolamo, suggeriscono di collocare negli stessi anni o poco prima anche l’opera della Carrara. Quest’ultima presenta, sia nella scena architettonica sia nelle singole figure, innegabili riferimenti alla cultura manierista romana tra Sebastiano del Piombo e Michelangelo, che se risultano piuttosto insoliti nell’ambito del catalogo conosciuto dell’artista, testimoniano tuttavia la sua conoscenza del repertorio di stampe con cui le invenzioni di questi pittori erano divulgate lungo la penisola.
Anónimo
Bacco e Arianna, 1670-1690 (Baco y Ariana)
Óleo sobre tela. 64 x 47 cm.
C.A.C.
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Nel catalogo della collezione del conte Giacomo Carrara la tela era assegnata a Pietro da Cortona ed era esposta accanto ad alcune opere di scuola romana seicentesca, di cui molte acquistate dal gentiluomo bergamasco durante il suo soggiorno nella città eterna del 1757. Attribuito in seguito al veneto Giulio Carpioni e anche alla scuola bolognese, il dipinto negli ultimi decenni è stato riferito alla scuola romana. Benché non sia al momento possibile avanzare un nome preciso per la tela, appare evidente come essa sia segnata dal gusto classicista che contraddistingue una parte della cultura figurativa della città eterna nella seconda metà del Seicento. La tavolozza schiarita e la magra stesura pittorica rammentano ancora le opere di Andrea Sacchi, ma le tipologie delle figure e dei volti, in particolare quello di Bacco, rimandano ai modelli di Pietro da Cortona e del suo ambito. Forse proprio tra i continuatori del pittore toscano va cercato l’autore del Bacco e Arianna dell’Accademia Carrara. (Paolo Plebani)
Anónimo, copia de Agostino Carracci
Plutone, segunda mitad del siglo XVII (Plutón)
Óleo sobre tela. 107 x 112 cm.
C.A.C.
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Il dipinto è una copia del Plutone eseguito da Agostino Carracci, per il soffitto della camera del Poggiolo in Palazzo dei Diamanti a Ferrara (1592), opera attualmente conservata alla Galleria Estense di Modena e appartenente in origine a una serie di cinque ovali raffiguranti personaggi mitologici, commissionati ad Annibale, Agostino e Ludovico Carracci da Cesare d’Este. Realizzato in controparte, la tela della Carrara non deriva direttamente dal dipinto di Agostino, ma dall’acquaforte eseguita negli anni Sessanta o Settanta del Seicento da Olivier Dauphin (Troyes, 1634 - Sassuolo, 1683), pittore e incisore francese attivo al servizio degli Este. La stampa di Dauphin, menzionata nel 1678 da Carlo Cesare Malvasia, fornisce un sicuro termine post quem per la datazione della tela. Opera di un anonimo copista attivo nella seconda metà del Seicento, il dipinto venne eseguito probabilemnte a Roma, città nella quale lo acquistava nel 1757 il conte Giacomo Carrara. (Paolo Plebani)
Atribuido al taller de Giambettino Cignaroli
Venere dormiente, 1750-1770 (Venus durmiente)
Óleo sobre tela. 65 x 78 cm.
C.A.C.
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Le due colombe raffigurate in primo piano suggeriscono di identificare in Venere la donna immersa in un sonno profondo protagonista del dipinto. Attribuita a ignoto artista di scuola veneta al momento del suo ingresso in Carrara con il legato di Cesare Pisoni nel 1924, la tela è stata riferita in seguito alla cerchia di Valerio Castello (Genova 1624 -1659). Essa tuttavia presenta evidenti affinità con una acquaforte di Dionisio Valesi (Verona, 1715 – post 1781) tratta da un dipinto di Giambettino Cignaroli non ancora identificato, ma che le fonti affermano venne eseguito nel 1752 per il vescovo di Wiener Neustadt, Ferdinand von Hallwein. Ippolito Bevilacqua, primo biografo di Cignaroli, avverte che di quest’opera l’artista realizzò diverse versioni e che ne esistevano delle belle copie. Una replica, assegnata alla cerchia del pittore veronese, è conservata al Museo del Castello del Buonconsiglio di Trento e all’ambito di Cignaroli va ricondotto anche il dipinto della Carrara. (Paolo Plebani)
Calco de la Venus de Milo, realizado por Arrondelle, del Taller de vaciados del Museo del Louvre, París
Vaciado en yeso. 240 x 70 x 60 cm.
IUNA - M.C.E
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La Diosa aparece desnuda hasta las caderas, con las piernas envueltas en un manto de voluminosos pliegues cuyo borde cae por encima de la rodilla izquierda, que tiene doblada por tener el pie apoyado en una elevación. Inclina el cuerpo hacia adelante y al lado izquierdo del espectador, levanta el hombro del lado contrario. El rostro, de una belleza ideal, presenta la cabellera rizada y partida en dos recogiéndose detrás con una cinta y tres bucles le caen sobre la nuca, como las representaciones de época. En la parte posterior los paños apenas están trabajados. Se diferencia de las esculturas femeninas praxitelianas de ese estilo por la mayor morbidez del cuerpo y una cierta gracia y sencillez en la figura. El rostro esta lleno de encanto y muestra una expresión suave y plena de gracia, propia del espíritu helenístico más humanizado y libre que el arte griego de los siglos V y IV a. de C. En la base, a la izquierda, se observa una placa de forma elíptica, con dos ramas artísticas en el centro y una inscripción en la parte superior que dice “Musée du Louvre” y otra en la parte inferior con la numeración“Nº 7462”.
Calco del Torso de Apolo de Belvedere
Vaciado en yeso. 120 x 90 x 90 cm.
IUNA - M.C.E
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La escultura original data del Siglo I a. de C., y el personaje es Apolonio de Atenas, hijo de Néstor.El personaje sedente sobre un peñasco está levemente inclinado hacia el lado izquierdo, y presenta un gran desarrollo y precisión en el tratamiento de la musculatura, que indican el vigor físico de la figura.
La pieza arribó al Museo de Calcos por “depósito prolongado” de la Escuela de Artes Decorativas de la Nación, el 20 de mayo de 1929.El calco resultante del vaciado, presenta, en el sector lateral inferior izquierdo, un sello rectangular. En él, se lee “Leopoldo” y un apellido ilegible, Formatote, Roma.
Calco del Emperador Settimio Severo, realizado por el Musées Royaux Du Cinquantenaire
Vaciado en yeso. 150 x 80 x 70 cm.
IUNA - M.C.E
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La escultura de origen, cuyas partes originales son el cuerpo, el brazo izquierdo hasta el codo y casi toda la mano izquierda, es de bronce. Según una antigua tradición, fue encontrada, bajo el pontificado de Urbano VIII (de 1623 a 1644), en las fosas del Castillo de San Angelo, en Roma. En la actualidad se encuentra en el Musées Royaux du Cinquantenaire, Bruselas. El cuerpo data del Siglo I (época de Augusto); y la cabeza, de los Siglos XVII ó XVIII, un fiel retrato de Severo I sobre el calco de una cabeza de mármol.
Giulio Paolini
Giovani che guardano Lorenzo Lotto, 1967 (Joven que mira a Lorenzo Lotto)
Fotografía sobre papel. 30 x 24 cm.
Col. del artista
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L'indagine di Paolini si rivolge verso le strutture della visione e i meccanismi di creazione e fruizione, ovvero dell'artista come creatore e spettatore dell'opera stessa. Cita largamente opere di artisti come Lotto, Bronzino, Vermeer, Velázquez, Watteau, Ingres, ma anche la statuaria classica, per stravolgere i pregiudizi estetici dello spettatore nell’avvicinarsi all’opera e, ancora, per riflettere sulla rappresentazione duplicata indotta proprio dai calchi in gesso.
In Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967 attraverso il semplice cambiamento del titolo, egli rovescia lo spazio della percezione: da essere oggetto passivo dell’arte, il giovane ritratto dal Lotto nel 1505, diventa colui che guarda l’artista-spettatore, creando, così, uno spostamento dell’attenzione sull’azione del osservare e su colui che guarderà il giovane guardare.
Michelangelo Pistoletto
Venere deglistracci, 1967 (Venus de los jirones)
Cemento, mica, jirones de tela. 150 x 280 x 100 cm.
L'Etrusco, 1976 (El etrusco) Espejo, bronce. 194 x 90 x 80 cm.
Col. Cittàdell'arte
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In la Venere degli stracci (1967) e L’etrusco (1976) la classicità è citazione della forma. La Venere degli stracci è collocata di spalle per evocare tutte le possibili Veneri della tradizione, resa anonima in questo modo può celebrare la bellezza e l’Arte per eccellenza. Il calco diventa ready-made, la statua in tutta la sua ieraticità classica è ridotta a oggetto duplicato capace di richiamare un passato di fasti poi messo a contrasto con un materiale che non gli è proprio: un grande accumulo di stracci logori. Senza enfasi e alterità plastica la Venere racconta del decadimento e della corruzione propri della modernità.
L’etrusco è una copia della scultura etrusca di Aulo Metello, collocata di fronte a uno specchio. Con quest’opera dalla straordinaria plasticità, Pistoletto recupera il motivo del riflettere su di sé, dell’incontro dell’uomo con se stesso, ma in questo caso la riflessione è letterale e non generata esclusivamente dalla duplicazione della statua stessa. Il pensiero è rivolto alle origini della civiltà: gli etruschi, infatti, sono il più antico ceppo italico conosciuto e incarnano qui il mito del primordio. Il braccio proteso, la mano che sfiora lo specchio distesa verso l’inafferrabile, rinvia proprio all’immagine riflessa sfuggente al tatto. L’etrusco è rappresentazione di un’identità classica che davanti a uno specchio, non può che scoprirsi nella sua vuota e fredda vanità.
Adrian Paci
Giovani che guardano Giulio Paolini, 2006-2014 (Jóvenes que miran a Giulio Paolini)
Impresión fotográfica sobre papel. 27 piezas de 30 x 21 cm.
Col. Galleria d’ Arte Moderna e Contemporanea
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L’artista Paolini, l’artista Lotto, l’artista Paci, lo spettatore Paolini, lo spettatore Lotto, lo spettatore Paci e i giovani spettatori dell’opera di Paolini e di Paci sono evocati, con compartecipazione e distacco, in questa opera fotografica composta da ventisette ritratti ispirati al Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini. L’opera di Paci fu realizzata in occasione della conferenza di Paolini, tenuta presso l’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo, durante la personale di Paolini alla GAMeC. In quell’occasione, furono realizzati i ritratti dei giovani studenti di Paci, che realmente guardavano Paolini tenere la conferenza. Il citazionismo è sottolineato nella resa in bianco e nero degli scatti, che evidenziano quanto Paolini, nel 1967, fece riproducendo il dipinto di Lotto su tela in bianco e nero e non a colori. L’intreccio di questi sguardi occupa un ruolo centrale nel lavoro di Paci e diventa strumento di narrazione dell’evoluzione della società contemporanea, che all’individualità del giovinetto cinquecentesco oppone il volto della collettività, non mediata da alcuna rappresentazione. È descrizione delle esistenze dei singoli quanto dei movimenti sociali nello spazio e nel tempo, alla ricerca di nuovi luoghi umani, storici-geografici e artistici.
Gianluigi Colin
Assenze: Pablo Picasso, 2006 (Asención: Pablo Picasso)
Impresión Lambda sobre papel Kodak Endura Metallic Pro, montada sobre Plexiglass
133,4 x 91 cm.
Col. Gianluigi Colin - Fondazione Marconi
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Lo sguardo dell’uomo contemporaneo è sommerso da immagini: un complesso substrato archeologico in cui il passato storico-artistico e il presente si amalgamano. Da Picasso e Piero della Francesca, alle sue stampe da gusto e colori pop: sabota, assembla materiali allargando senso e percezione e decostruendone l’impianto compositivo. La figura della Madonna della Misericordia, 1445 schiude il mantello sotto il quale si rifugiano non solo gli inginocchiati in preghiera, ma anche la madre adottiva con i suoi figliastri ciechi fotografati da Sander, 1930-31. Assenze fisiche e spirituali che si convertono in rivelazioni: intervenendo sull’allegoria de La vita, 1903, olio su tela tra i più rappresentativi del periodo blu di Picasso, Colin instaura un doppio rapporto con la tradizione artistica. Esaminando il sovrapporsi di diversi strati dello sguardo e il potere della sedimentazione iconica, egli rivela un nuovo senso della realtà, dove anche la memoria è racconto del presente e valore fondante dell’esistenza.
Vanessa Beecroft
VB62.001.VB, 2008
Fotografía C-print. 100 x 300 cm.
Col. Galleria Lia Rumma
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I suoi stereotipi, specie femminili, sono inseriti in atmosfere asciutte affinché la corporeità, correlata all’identità personale, arrivi ad assumere un ruolo essenziale, spesso drammatico. Geometrici tableaux vivants di corpi nudi che si dibattono tra dinamiche opposte di omologazione e differenziazione, mistificazione e sessualità, vita e morte. L’azione della 62° performance di Vanessa Beecroft nella Chiesa di Santa Marina dello Spasimo di Palermo è catturata in video e fotografia. Il minimalismo post-classico dei corpi di trenta ragazze s’incrocia con i rispettivi simulacri in gesso, omaggio alla scultura siciliana barocca di Serpotta (Palermo, 1656 - 1732). Un bianco statuario ne fissa le esistenze. Le donne iniziano a muoversi con moti lievi. I gessi suggeriscono la gestualità morbida delle modelle con rimandi speculari che anticipano la trasfigurazione del corpo in statua e della statua in corpo. Testimonianza dell’incontro tra classico e contemporaneo, il lavoro di Vanessa Beecroft conserva un’impostazione tradizionale nella composizione e ingloba gli spunti di neoclassicismo e pittura fiorentina, di artisti come Piero della Francesca e Raffaello, di cui recupera quel perfetto controllo formale che caratterizza le loro opere.
Ferrario Frères
Atelier scena III, 2013 (Atelier escena III)
Impresión digital sobre papel de algodón. 150,5 x 308 cm.
Col. del artista
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L’opera è parte di un progetto fotografico di grandi dimensioni che per composizione e intenti evoca L'atelier du peintre, allégorie réelle déterminant une phase de sept années de ma vie artistique et morale, 1855 di Gustave Courbet: allegoria reale che ritrae la città dell’arte di Bergamo nella vita artistica dei Ferrario Frères, parafrasando liberamente il titolo originale dell’olio su tela francese. La scena rappresenta la morte dell'artista. Lo spazio è nettamente suddiviso in due livelli. La parte superiore è dominata da un’atmosfera cupa; dalle alte vetrate si delineano i tetti della città, Piazza Vecchia con la Basilica di Santa Maria Maggiore sullo sfondo. Nella parte inferiore, disposti a fregio, diretti verso il corpo dell’artista, i personaggi, che lo hanno metaforicamente accompagnano nel suo percorso biografico, sono ora riuniti nel commiato. Anche in questo caso, l’artista ha voluto citare un'altra opera monumentale del realista Courbet, Funerale a Ornans, del 1849.